FRANCO GERVASIO
LIGHTLAND
Di giorno dipingo il paesaggio in campagna.
Di notte fotografo la città illuminata
Quando un artista è consapevole del proprio lavoro, riesce, in poche parole, a condensarne il senso e la poetica. È poi compito di chi ne scrive scendere nei dettagli del fare e prima ancora del progettare; ma l’opera deve saper parlare da sola, esporsi allo sguardo del pubblico carica della coscienza e delle conoscenze di chi l’ha realizzata e che, in prima persona, mostra il proprio sentire e creare all’altro. Nell’atto dell’esposizione, diceva Jean Luc Nancy, l’artista si mette a nudo, espone se stesso, la propria pelle: ex-peau-sition.
Nei Lightland di Franco Gervasio c’è la sua storia e la visione del mondo. C’è il suo lavoro nel teatro e la sua profonda conoscenza della scena; c’è l’amore per la luce, naturale e artificiale: quando de-finisce un paesaggio nell’abbraccio del mattino, quando la sera s’imbeve nella campagna e ne assorbe e distilla le malinconiche sfumature, disciogliendo i contorni delle cose; oppure quando si staglia e dipana stupefatta nei meandri elettrici della metropoli notturna.
Nei Lightland di Franco Gervasio c’è l’amore per l’arte, tutta: la sensibile comunanza con gli impressionisti che, agli albori della modernità, dipingevano en plein air e s’immergevano nei brividi nottambuli della città illuminata; la conoscenza dei Chiaristi della Torino di primo Novecento, l’attenzione sensibile al figurativo, al ritratto e al paesaggio; c’è la curiosa attenzione per l’arte contemporanea, dalle rabbie del gruppo CoBrA alle danze di Pollock; dai bisbigli e dalle grida di Marc Tobey al canto incalzante di George Mathieu. Ma come condensare, come “dire” la complessità della luce che s’insinua e vive tra e nelle cose, sulle dita e negli occhi, disciolta nella materia pittorica o scolpita nello scatto di una fotografia?
Lightland: non sono “light box” e neppure “land of light”. In quest’ultima tappa della ricerca di Franco Gervasio, la luce è paesaggio, si fa duna erbosa o lampo elettrico, intrecciando uno nell’altro fili cromatici che diventano oggetto plastico – scultura di luce – racchiusa nella trasparenza del plexiglas, come protetta, e al contempo esposta allo stupore del pubblico.
Il processo artistico retrostante a questo lavoro è complesso: l’artista ci ha svelato i suoi segreti, con il sorriso di chi sa che un conto è dire la tecnica, un altro è tradurla in opera d’arte. Il primo passo è quello del dipingere il paesaggio di luce: pochi segni essenziali costituiscono il progetto della scultura da realizzare in vetro e neon: in scala 1:1, l’artista definisce le linee nei colori puri dei gialli e degli ocra, nello squillare dei rossi e nella quiete dei verdi, nel respiro del blu e del rosa. Tracciate su carta, le linee diventano la traccia da seguire per realizzare le cannule di vetro colorato nelle quali far scorrere il gas neon. L’artista compie tutte le tappe: seguendo il disegno, soffia il vetro – antico mestiere sempre più raro e prezioso – per ottenere tubi sottili da comporre in un plastico abbraccio, fondendoli e assemblandoli l’uno con l’altro. Ottenuta la scultura di vetro, questa è completata con l’immissione del gas neon nei gangli di vetro colorato; infine, viene inserita nella teca, destinata a proteggerla e consegnarla al nostro sguardo, esaltandone le cromie luminose in un gioco di riflessi e ombre proiettate sulle pareti trasparenti, finemente molate e lucidate con una spazzola utilizzata solitamente per la lustratura degli specchi.
Il risultato è un’opera scultorea di raffinata bellezza, frutto di una grande ricerca estetica ma anche di una notevole maestria tecnica, aspetti sempre più rari nel panorama attuale, dove vige la regola che per fare scultura basta assemblare – o ammucchiare oggetti – in uno spazio, o ancora sperimentare materiali senza conoscerne le regole e le reazioni.
Il neon, carico della storia dell’arte tra XX e XXI secolo, si arricchisce nell’opera di Franco Gervasio di nuove potenzialità espressive: non evidenzia la frattura tra le parole e le cose, come nell’arte concettuale, né si inserisce nel dissidio tra il tempo della natura e quello dell’industria, tra mondo vegetale e animale e mondo tecnologico e produttivo, come nell’arte povera; non è luce che diventa ambiente o definisce lo spazio.
È Lightland, scultura che in sé racchiude il paesaggio, traducendolo in filamenti luminosi e ammalianti. é la messa in scena, da parte di un artista che lavora da sempre nel teatro, del suo sguardo intimo sul mondo; è il punctum in cui s’incontrano, per poi rinascere con nuovo vigore, lo scatto fotografico e il segno pittorico. È la condensazione plastica di un altrove: oltre lo spazio del giorno, all’indomani della notte. Nell’istante della contemplazione.
Ilaria Bignotti